L’esperienza pandemica ha riportato in evidenza il tema della solitudine.
Un’espressione, la solitudine, con una duplice valenza:
- quella dell’isolamento, dell’emarginazione
- e quella dell’appagamento e del senso di completezza in sé stessi.
Le personalità estroverse, così definite da Jung nel suo libro Tipi psicologici, tendono a trovare la propria pienezza immergendosi nelle relazioni, tra la gente, anche in senso fisico, nei rapporti interpersonali.
Per loro la solitudine è spesso dolorosa, o comunque spiacevole, e corrisponde al rimanere fuori del mondo, scollegati, persi nel vuoto abissale di sé stessi.
Essere vivi equivale ad essere insieme agli altri
È qui che nei momenti di difficoltà si torna a recuperare le energie, a riprendere l’equilibrio emotivo, a sentire la vita.
Non poter incontrare gli altri è una privazione forte ed in certi casi insopportabile. La solitudine depotenziante percepita dall’estroverso è quella che in lingua inglese viene definita loneliness, abbandono.
La lingua inglese risponde a questa definizione con l’espressione aloneness, la solitudine magica e avvolgente, il tempio interiore.
Dovremmo gli uni imparare dalla sensibilità degli altri, ed apprezzare il fascino dell’essere sociali così come la magia della aloneness.


Ma ora, di quale solitudine si parla, in tempi di pandemia?
Naturalmente di entrambe.
In una visione costruttiva, spinti dal desiderio di cogliere sempre e comunque le possibili opportunità, a prescindere dalle caratteristiche di personalità, tutti possiamo imparare a trarre vantaggio dalla aloneness.
L’isolamento sociale, fisico, forzato, può averci sospinti a stare maggiormente con noi stessi, ad ascoltarci di più, ad imparare il linguaggio interiore e a cogliere gli aspetti piacevoli dell’intimità personale. In altre parole, ad equilibrare la tendenza verso un’evasione a volte eccessiva, di fuga da sé, che in alcuni casi può essere sintomo di sofferenza, ma che può persino alimentarla.
D’altra parte, abbiamo affrontato e stiamo ancora affrontando l’isolamento fisico, soccorsi dalla salvifica realtà digitale della rete internet, dei social media, delle videocomunicazioni, che ci hanno permesso di attutire quella che diversamente sarebbe stata una loneliness senza precedenti.
Dunque, in attesa del vaccino biologico, abbiamo avuto a disposizione un vaccino digitale, socio-relazionale, che ci ha consentito di non perdere le connessioni e di poter comunque interagire.
E a proposito possiamo dire che l’avvitamento su sé stessi, che in un contesto diverso avrebbe potuto generare anch’esso stati di depressione e perdita di identità, grazie a queste risorse, si è potuto in parte contrastare.
Adesso, aspettando di poter tornare a guardarci negli occhi veri, a stringerci le mani e tra le braccia, possiamo provare ad arricchirci riscoprendo il piacere di stare con noi stessi come non abbiamo mai fatto in passato;
e al contempo godere della possibilità di mantenere le relazioni con gli altri, grazie agli strumenti digitali, come nessun’altra generazione, in altri tempi ha mai potuto fare!


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